Parla Anemos

18
Giu

Perchè meditare? (pt. 2)

Spesso accade che la meditazione rifletta uno stato di coscienza che è pregno delle conoscenze dei grandi maestri di tutti i tempi appartenenti alle vere tradizioni di ricerca spirituale.

Possiamo dire che la meditazione è il corretto atteggiamento nei confronti della vita stessa, e in questo senso non è riducibile ad una tecnica, ad una postura, perché se così fosse escluderemmo gran parte delle esperienze che costituiscono il nostro vivere quotidiano. Se abbiamo chiaro questo punto, allora possiamo avvicinarci ad eventuali esercizi meditativi con un’impostazione corretta, riconoscendo negli esercizi un apporto valido, e per molti versi indispensabile, al fine di correggere la nostra percezione degli eventi.

Possiamo usare una metafora per comprendere bene questo punto, possiamo avvicinarci alla pratica meditativa considerando il nostro stesso corpo fisico come un apparecchio radiofonico. Ovviamente questo corpo fisico, qualora cosciente, è un apparecchio ricetrasmettitore capace di ricevere onde, frequenze, programmi, e capace di trasmetterli qualora riesca a sintonizzarsi sulla frequenza corrispondente al programma voluto.

Nel corso della giornata il nostro apparecchio psicofisico, proprio come una radio, è in grado di ricevere diverse esperienze, diversi programmi.

Queste esperienze vengono vissute come sensazioni, emozioni, come stati mentali. Sintonizzarci correttamente su queste esperienze significa essenzialmente prendere coscienza di quello che ci sta accadendo e dunque essere pienamente consapevoli del punto di osservazione. In altre parole, la nostra capacità di ascolto obbiettivo rispetto a quanto noi percepiamo come programma, la nostra capacità di osservazione e di ascolto attento ci permette di conoscere la natura degli eventi così come si manifestano, secondo le cause e le condizioni che le determinano. Ciò che avviene nella nostra vita è determinato e al tempo stesso è determinabile. Questa comprensione ci permette di uscire fuori dalla credenza assai diffusa secondo la quale le cose sono predeterminate, secondo la quale siamo vincolati ad un destino. La corretta comprensione della sequenzialità, della relazione causa ed effetto, ci permette di riconoscere una possibilità che spetta a noi cogliere in ogni momento: la possibilità di essere liberi, di essere pienamente illuminati. Non possiamo relegare questa possibilità al futuro e non possiamo neanche compiangerci per non essere ancora illuminati.

Dobbiamo necessariamente prenderci la responsabilità di convogliare tutte le nostre forze affinché, nel momento presente, si attui una vera e propria rivoluzione della coscienza, realizzando così, pienamente, ciò che noi siamo: esseri di luce. Essere in grado di ricevere luce e di trasmetterla.

Ci sono altre parole che descrivono questo stato di coscienza, parole come libertà, verità, amore. Per molti versi descrivono essenzialmente un’unica capacità, la capacità di sentire chiaramente, vedere chiaramente, conoscere chiaramente ed esprimere chiaramente. Vedere, sentire, conoscere, sono proprietà della coscienza ed è sui principi della visione profonda che possiamo esprimerci pienamente. Ecco che la pratica meditativa si presenta come strumento affinché questa visione profonda non venga mai meno, affinché si manifesti la chiarezza necessaria per essere in armonia con la vita, per essere nella vita, al di là del dualismo che la caratterizza a livello sensoriale.

In altre parole, il nostro percorso si svolge all’interno della nostra esperienza psicofisica e, tuttavia, vuole portarci allo sviluppo delle nostre potenzialità, affinché si possa passare da uno stato di semplice sensorialità allo stato di multisensorialità, ampliando le nostre percezioni, esprimendoci pienamente secondo coscienza, secondo amore.

Come faremo tutto questo?

Prima di tutto portando l’attenzione al corpo, in quanto il corpo costituisce il primo ricettacolo della vita.

Questa accensione della vita avviene nel momento in cui i due gameti si incontrano e costituiscono la prima cellula e questa, dividendosi, dà inizio ad un processo in cui si rincorre una verità profonda. È la verità dell’intrinseca unità presente in ogni cosa. Ecco, questa è una verità spirituale perché trascende la materia e tuttavia si esprime nella materia su ogni piano. Sul piano dell’evoluzione fisica dunque c’è una continua ricerca di ristabilire un’unità apparentemente persa. Sul piano dell’introspezione ognuno di noi cerca di riportare la propria mente ad uno stato di unità, ad uno stato di pace, di integrazione profonda di tutti gli elementi costituenti la persona. Ecco che corpo, energia e mente, qualora armonizzati, qualora vissuti in consapevolezza, diventano i canali dello spirito. Il nostro lavoro meditativo vuole essere essenzialmente questo: fare del nostro corpo, e della sua espressione cosciente, canale puro affinché ci sia vera ricettività. Ciò significa essere in grado di attingere direttamente dalla conoscenza senza le distorsioni tipiche del mentale, di cui molto spesso siamo afflitti, poiché è proprio nella stratificazione dei pensieri che ha luogo il gioco dell’esistenza, con tutte le sue problematiche del nascere e del morire.

Il pensiero “io sono perché penso” di per sé è una trappola mortale.

L’immortalità dell’essere si manifesta come realtà esperibile ogni qualvolta siamo in grado di lasciare andare il pensiero. Questa capacità di lasciare andare il pensiero necessità una verifica esperienziale. All’interno della pratica meditativa tale verifica è possibile poiché portiamo una maggiore attenzione al flusso degli eventi, e riconosciamo nella caratteristica della transitorietà, dell’impermanenza, una legge universale. Tutto è instabile, tutto è transitorio, tutto è effimero, impermanente, caduco. Questa capacità di visione del costante fluire dell’esperienza, ci pone quasi magicamente al di fuori della stessa, ed ecco che in quella percezione diretta, la coscienza diventa vasta, non più preoccupata ma tranquilla e profonda, serena, amorevole, aperta. Noi vorremmo attingere da quell’esperienza, senza soffermarci troppo sui vari cavilli mentali che si possono frapporre all’interno del quadro meditativo. La nostra comprensione va al di là di una struttura concettuale in quanto è capace di vedere il pensiero come semplice pensiero. Non a caso una delle indicazioni più efficaci della pratica meditativa consiste nel lasciare andare i pensieri, nel ricordarci che tutto è in continuo cambiamento, tutto scorre.

La capacità di cogliere il messaggio contenuto nel pensiero ma, al tempo stesso, anche la sua relatività, ci permette di dare al pensiero e a tutte le esperienze una collocazione funzionale alla comprensione.

Un errore, che spesso facciamo nella pratica meditativa, è quello della trascuratezza, di non cogliere veramente il senso di quello che ci accade. Ecco che questa duplice attenzione al pensiero, e al tempo stesso alla sua impermanenza, ci permette di non cadere in quell’errore: tutto è transitorio, ma ciò che si manifesta è parte del tutto e dunque è una sua espressione, ha un contenuto, ha un messaggio e, qualora compreso, rileva un segreto che era sconosciuto. Nella pratica meditativa, avvieremo questo processo di esplorazione, di raccoglimento, affinché nella coscienza si liberi ogni tensione, affinché si sciolga ogni malessere.

Poiché questo avviene nel corso del processo meditativo, ci potrebbe accadere di sentirci più o meno frastornati, confusi, sofferenti. Se ciò accade, ricordatevi sempre che quel malessere, quel disagio, quell’insofferenza, lo stesso senso di ribellione a ciò che vi accade, a ciò che state facendo, non è altro che una fase necessaria al fine di attuare una vera e propria purificazione e, quando il malessere trova una vera risoluzione, scompare e non si ripresenta più perché le stesse cause, radici del malessere, sono state recise. La pratica meditativa non è palliativa, ma è un andare alla radice del problema che caratterizza la nostra esistenza.

Lo stesso Buddha individua questa problematica di fondo, la riconosce e le dà un nome, la chiama “avijà”, nella lingua antica pali delle tradizioni indiane. “Avyjà” non è altro che la non conoscenza, “a” è il prefisso al quale si aggiunge “vyjà” che significa conoscenza. La non conoscenza non è altro che morte. Ecco che la morte, nella sua accezione di illusione, ci vela la conoscenza. La conoscenza di essere al di là della morte stessa, la conoscenza del non nato, del non generato, del non creato, nient’altro che la conoscenza del Dharma, della legge, dell’universalità della natura, di Dio, come insegnano le religioni monoteiste.

Possiamo parlare di pratica meditativa come vera via alla conoscenza, un’esperienza diretta della Verità.

L’esercizio fondamentale per un avvicinamento a questa verità non è altro che la consapevolezza del respiro, del flusso continuo del respiro nel suo alternarsi, nelle sue pause. Nella percezione di questa spinta, che ci permette di essere in vita, senza il pompare del nostro cuore, del nostro sistema sanguigno, senza questo continuo prendere e dare, questo continuo ricevere, accogliere e restituire, non ci potrebbe essere la vita. Ecco che l’attenzione al respiro è di fondamentale importanza per entrare coscientemente nel flusso della vita. Entrare nel flusso della vita significa cominciare a ricevere informazioni che prima ci erano precluse.  La consapevolezza del respiro si presenta come vera e propria porta, l’apertura di questa porta ci permette di entrare in una dimensione esperienziale in cui la coscienza primeggia.

Non a caso, l’assenza del respiro indica la mancanza di coscienza. La mancanza di vita è dunque la morte fisica dell’organismo. Più consapevolezza, più coscienza, più coscienza, più vita, più vita nella conoscenza della non morte, dunque dell’immortalità. Il superamento della paura della morte è uno degli effetti di una pratica meditativa rigorosa, attenta ed efficace. Andare oltre la paura significa andare oltre i limiti di una coscienza limitata da preconcetti. La stessa idea di essere nati un tale giorno, ad una tale ora, è un preconcetto che trova la sua giustificazione solo nello sviluppo biologico di una cellula. È di fondamentale importanza andare oltre l’identificazione con qualsiasi processo poiché i processi sono all’interno di una dimensione spazio-temporale, e dunque sono determinati da un inizio, da una crescita e da una fine. Inizio, crescita e fine sono le coordinate di qualsiasi viaggio, di qualsiasi esperienza, di qualsiasi esistenza. Inizio, sviluppo e fine all’interno di un quadro spazio-temporale. Fare salti di coscienza significa ampliare quegli spazi, uscire dalle costrizioni. Ecco perché si parla di libertà e, in fondo al cuore, in fondo all’anima, c’è essenzialmente questo richiamo alla libertà, al ben-essere, questa è l’aspirazione che ha caratterizzato la storia di tutti gli esseri.

Il richiamo alla libertà è il richiamo al benessere, alla conoscenza della nostra interdipendenza e al riconoscimento che non si può essere liberi se non nel rispetto della libertà degli altri e dunque nell’amore. Tutto ciò si manifesta con un semplice passo, con una semplice consapevolezza, quella della nostra interconnessione, del nostro respirare tutti insieme, la consapevolezza dell’essere ‘qui ed ora’. Se l’apporto benefico del respiro viene compromesso, per cause interne o esterne, la vita per come la conosciamo è compromessa, e ciò che rimane (almeno per i credenti) è la fede che la Vita continua nella dimensione spirituale.

Sarà veramente così? È un mistero!


Mario Thanavaro – Maestro di meditazione

Per conoscere di più sull’autore: www.mariothanavaro.it

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